Il dialetto barese

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Come tutte le Città italiane anche Bari possiede in alternativa con la lingua nazionale la parlata dialettale della quale ora facciamo un cenno sia pure molto fugace. Premesso ciò, il barese viene parlato grosso modo in tutta la provincia di Bari e in quella di Barletta-Andria Trani, dove sono presenti alcune varianti come il barlettano, il tranese e l'andriese.

A nord ha zone d'influenza nella provincia di Foggia, dove però si parla il dialetto foggiano che può essere visto come un dialetto barese fortemente influenzato dal napoletano. A ovest si diffonde anche nella provincia di Matera (Matera, Montescaglioso, Irsina) il cui dialetto non presenta evidentissime differenze con quello barese, soprattutto nella cadenza melodica, quindi a sud arriva fino la soglia messapica lungo una linea ideale che va da Taranto, dove si parla il tarantino, a Ostuni (BR), al di sotto della quale si parla il salentino, per molti tratti confrontabile con quello siciliano anche se ovviamente diverso, oltre che particolare e molto colorito rispetto i dialetti del resto della Puglia.

Il lessico dialettale barese, di origine romanza, è quasi del tutto incomprensibile per chi non sia pugliese o perlomeno meridionale: Ce bedde uè parè u uess pezzidde t'àv'a duè (Se bello vuoi apparire, l'osso sacro ti deve dolere) Avime fatte trende, facimê trendune (Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno) Passatê u sande passate la feste (Ogni cosa a suo tempo). Esso è costituito per la maggior parte di vocaboli derivanti dal latino plebeo o volgare, così come del resto si verifica per tutte quante le regioni centro meridionali della nostra Penisola. Non mancano tuttavia, fra le sue componenti, elementi abbastanza numerosi di derivazione greca dovuti in parte alla presenza in Puglia fra l’VIII e il VI sec. a. C., di fiorenti colonie della Magna Grecia e in parte al fatto che la città fu soggetta al dominio di Bisanzio fino al 1071, quando venne conquistata dai normanni di Roberto il Guiscardo.

Insieme agli elementi latini e greci, cospicue sono pure le tracce di parlate germaniche, lasciate dal passaggio delle invasioni barbariche; di arabo, radicatesi in maniera abbastanza profonda, durante il IX sec., quando Bari fu per 30 anni sede di un potente emirato musulmano, nonché in dipendenza dei frequenti rapporti commerciali con l’Oriente; di francese e di spagnolo, a causa della dominazione normanna, angioina, aragonese, ecc. che si avvicendarono nel corso dei secoli.

La parlata dialettale barese rappresenta quindi una specie di tessuto connettivo fra il passato e il presente, nel quale ogni epoca o avvenimento ha lasciato dei segni che, a somiglianza di altrettanti residui fossili, offrono testimonianze innumerevoli intorno all’antichità della storia barese, ai contatti avuti con gli stranieri e ai costumi del luogo. Tanto per citare qualche esempio, l’espressione “te fazzeche a n’ore de notte” (ti faccio nero di botte come lo è un’ora di notte) sta per ricordare che, nell’antico computo del tempo, la notte si considerava cominciata un’ora dopo il tramonto del sole. L’espressione “sguizze”, sinonimo di lestofante, deriva da Svizzero ed è il ricordo della sgradita presenza dei soldati svizzeri di guarnigione nel locale castello, in qualità di truppe mercenarie.

L’espressione “filècènze”, usata dai bambini per interrompere momentaneamente l’osservanza delle regole di un gioco in corso, è una reminescenza del “sit cum licentia” dei bimbi romani. Il grido “a le saracine”, con cui i monelli usavano in passato accompagnare la sassaiola fra i gruppi rivali, non è altro che una illusione alle difese cui si doveva ricorrere anticamente per fermare le frequenti irruzioni saracene lungo la costa.

Si potrebbe andare avanti molto a lungo con le esemplificazioni, ma preferiamo sottolineare almeno la ricchezza straordinaria del lessico barese che, fra le sue tante possibilità, offre persino quella di tradurre in una cinquantina di modi la parola italiana “schiaffo”, o magari l’altra di nominare i sette giorni della settimana e di aggiungerne un ottavo, senza adoperare i soliti nomi, per cui si ha: “josce”, “cra”, “pescrà”, “pescridde”, “pescrudde”, “aijre”, “nestèrze”, “dia tèrze” (oggi, domani, dopodomani, fra due giorni, fra tre giorni, ieri, avantieri, l’altro giorno prima di avantieri).

Nel famoso scioglilingua C g na ma scì, sciamanin, c nan g na ma scì, nan g n sim scien (Se ce ne dobbiamo andare andiamocene, se non ce ne dobbiamo andare, non ce ne andiamo), è messo in risalto il verbo andare, la cui traduzione in barese proviene direttamente da influenze arabe. Andare in arabo si dice infatti يذهب (namsci). Esistono numerose altre parole del dialetto barese di derivazione araba, come ad esempio tavut (bara), in arabo appunto نعش (taut, da cui anche il napoletano tavuto).

Tanta vivacità e ricchezza di espressione ha naturalmente favorito la fioritura di una nutrita schiera di poeti e scrittori dialettali, fra i quali, un posto di maggiore rilievo compete, nell’Ottocento, al canonico Francesco Saverio Abbrescia e, nel Novecento, a Gaetano Savelli, al quale si deve, fra l’altro, una traduzione in dialetto barese dell’intera Divina Commedia di Dante Alighieri.

Nel cinema di commedia all'italiana la parlata barese è stata resa celebre da famosi attori quali Lino Banfi, Sergio Rubini, Gianni Ciardo, Dino Abbrescia, Emilio Solfrizzi. Attori come Giorgio Porcaro hanno interpretato personaggi cinematografici, definiti terruncielli, parlanti un dialetto misto tra barese e milanese completamente inventato comunque simile all'idioma parlato dai tanti pugliesi integratisi nella comunità sociale milanese. Alcune pellicole sono totalmente in dialetto barese: forse la più nota è LaCapaGira che conseguì un premio della critica al festival di Berlino. In teatro sono molte le compagnie che recitano in barese recandosi periodicamente all'estero dove si son trasferiti milioni di pugliesi.

Nicola Sciortino